Bosa
Territorio
Bosa (in sardo Bosa o, contratto, 'Osa, pronuncia ) è un comune italiano di 7 936 abitanti della provincia di Oristano, nella costa occidentale del centro-nord della Sardegna. Fa parte dell'Unione di Comuni della Planargia e del Montiferru Occidentale. È il principale centro abitato della subregione della Planargia e si inserisce, storicamente, nel più vasto territorio del Logudoro, condividendo con quest'ultimo l'utilizzo della variante linguistica del sardo logudorese. Durante il dominio aragonese, ottenne il rango di città regia del quale attualmente permane, con l'abolizione dei privilegi feudali, il titolo onorifico di città. Insieme ad Alghero è sede vescovile della diocesi di Alghero-Bosa. Il territorio comunale di Bosa, dalla superficie di 128,02] km², si trova in una regione collinare-litoranea con altitudine media di 279,1 m s.l.m., nel contesto geografico dell'altopiano della Planargia, chiuso a sud dalla catena del Montiferru, a est dal Marghine e dalla Campeda, a ovest dal mar di Sardegna e a nord dalla dorsale dei rilievi di Sa Pittada (788 m s.l.m.) e di monte Mannu (la vetta più elevata del territorio con i suoi 802 m s.l.m.). È attraversato dal corso del Temo, l'unico fiume navigabile della Sardegna (per circa 6 km), nella cui piana alluvionale si trova adagiato il centro abitato, il quale, da un nucleo medievale posizionato sulle pendici del colle di Serravalle (81 m s.l.m.), si è esteso a partire dall'Ottocento verso valle e, dal Novecento, sino alla foce e in direzione della costa, ove si è sviluppata una stazione balneare, Bosa Marina.Bosa (in sardo Bosa o, contratto, 'Osa, pronuncia ) è un comune italiano di 7 936 abitanti della provincia di Oristano, nella costa occidentale del centro-nord della Sardegna. Fa parte dell'Unione di Comuni della Planargia e del Montiferru Occidentale. È il principale centro abitato della subregione della Planargia e si inserisce, storicamente, nel più vasto territorio del Logudoro, condividendo con quest'ultimo l'utilizzo della variante linguistica del sardo logudorese. Durante il dominio aragonese, ottenne il rango di città regia del quale attualmente permane, con l'abolizione dei privilegi feudali, il titolo onorifico di città. Insieme ad Alghero è sede vescovile della diocesi di Alghero-Bosa. Il territorio comunale di Bosa, dalla superficie di 128,02] km², si trova in una regione collinare-litoranea con altitudine media di 279,1 m s.l.m., nel contesto geografico dell'altopiano della Planargia, chiuso a sud dalla catena del Montiferru, a est dal Marghine e dalla Campeda, a ovest dal mar di Sardegna e a nord dalla dorsale dei rilievi di Sa Pittada (788 m s.l.m.) e di monte Mannu (la vetta più elevata del territorio con i suoi 802 m s.l.m.). È attraversato dal corso del Temo, l'unico fiume navigabile della Sardegna (per circa 6 km), nella cui piana alluvionale si trova adagiato il centro abitato, il quale, da un nucleo medievale posizionato sulle pendici del colle di Serravalle (81 m s.l.m.), si è esteso a partire dall'Ottocento verso valle e, dal Novecento, sino alla foce e in direzione della costa, ove si è sviluppata una stazione balneare, Bosa Marina.
Il clima
Il clima di Bosa è classificato come mediterraneo, con inverni miti e umidi ed estati calde e secche. In base alle medie climatiche degli anni 1971-2000, la temperatura media del mese più freddo, gennaio, è di 9,8 °C, mentre quella del mese più caldo, agosto, è di 23,9 °C; mediamente si contano 5 giorni di gelo all'anno e 40 giorni annui con temperatura massima uguale o superiore ai 30 °C. Nel periodo esaminato, i valori estremi di temperatura sono i 41,8 °C del mese di luglio del 1983 e i -4,8 °C del mese di gennaio del 1981. Le precipitazioni medie annue si attestano a 573 mm, mediamente distribuite in 65 giorni, presentando una distribuzione stagionale fortemente irregolare, con un elevato indice di intensità a partire dalla fine di autunno e l'inizio dell'inverno, specialmente tra novembre e dicembre. Dopo una breve diminuzione, i fenomeni piovaschi riprendono tra la fine di gennaio e l'inizio della primavera. Nel mese di maggio, poi, le precipitazioni subiscono un'inflessione che ha il suo culmine durante i mesi estivi e si protrae, spesso, fino a settembre. A Bosa, alle condizioni di maltempo, durante l'inverno e la primavera, si associano sovente i venti del IV quadrante, provenienti da nord-ovest e da sud-ovest, e – in particolare – il maestrale, che può raggiungere la velocità di 100-120 km/h. L'umidità relativa media annua fa registrare il valore di 75,3% con un minimo di 69% a luglio e un massimo di 80% a dicembre; mediamente si contano 44 giorni all'anno con episodi nebbiosi. Di seguito è riportata la tabella con le medie climatiche e i valori massimi e minimi assoluti registrati dalla stazione meteorologica di Alghero Fertilia negli anni 1971-2000 e pubblicati nell'Atlante Climatico d'Italia del Servizio meteorologico dell'Aeronautica Militare
Fauna
Nella costa fra Bosa e Alghero, in un contesto tutelato con vincolo paesaggistico e riconosciuto quale sito di interesse comunitario], è presente l'unica colonia sarda, nonché la più consistente sul territorio nazionale, di grifoni (gyps fulvus), specie protetta[14][15] e sottoposta a programmi di ripopolamento a causa del rischio di estinzione. Nel 2015 si contavano, nel territorio, fra le trentacinque e le trentasei coppie riproduttive. Tra le numerose specie viventi presenti nel mare di Bosa ve ne sono alcune meritevoli di catalogazione tra le specie poco diffuse nel mar Mediterraneo. L'anemone gioiello (corynactis virydis), di colore lilla, colonizza la sommità della secca di Su Puntillone, 13 km a sud di Bosa Marina. È una specie endemica dell'oceano Atlantico.
Preistoria
Il territorio del comune di Bosa fu abitato già in epoca preistorica e protostorica come dimostrano le grotticelle funerarie mono o bicellulari individuate – in un numero pari ad almeno trentasei – in varie località (Badde Orca, Capitta, Coroneddu, Funtana Lacos, Ispiluncas, Monte Furru, Pala 'e Cane, Pontes, Sorighes, Silattari, Tentizzos, Torre Argentina e Tuccaravo). Il rilevante numero di domus de janas e la loro superficie, che giunge sino a 88,53 m², testimoniano una frequentazione umana piuttosto aggregata ascrivibile all'Età del Rame (per le tombe dotate di dromos) o alla cultura di Ozieri e al Neolitico recente. Di particolare rilievo si presenta la Tomba I di Pontes la quale presentava delle pareti interne levigate e dipinte di rosso, simbolo del sangue e della rigenerazione, sulle quali era incisa una raffigurazione di doppie corna, a testimonianza del culto della divinità taurina. Si sono rinvenuti, inoltre, i resti di focolari rituali (Tuccaravo) e coppelle a destinazione sacrale scavate nel pavimento di alcuni ipogei (Coroneddu e Funtana Lacos I), mentre in altre tombe si sono riscontrate delle nicchie per le offerte funerarie. Poco numerose sono, invece, le testimonianze riconducibili all'Età del Bronzo e alla civiltà nuragica. A tale periodo risalgono i due nuraghi complessi siti nelle località di Monte Furru e di S'Abba Druche – ove sono stati individuati anche i resti di una tomba dei giganti – e quelli dalla struttura semplice di Rocca Pischinale e di Santu Lò.
Storia antica fenicio-punica (IX-III secolo a.C.) e romana (238 a.C.-456)
Nulla di certo si conosce dello stanziamento fenicio-punico. I Fenici dovettero usare per l'approdo la foce del fiume Temo (allora all'altezza di Terridi), riparata dalle mareggiate dall'Isola Rossa, e dal maestrale dal colle di Sa Sea. Forse proprio lì, o secondo l'ipotesi maggiormente accettata nella vallata di Messerchimbe, più all'interno e sulla sponda sinistra del fiume, svilupparono un centro abitato. Qualche studioso (Antonietta Boninu, Marcello Madau), in base alla conformazione del luogo, sostiene che in età cartaginese il sito urbano fosse bensì all'altezza di Messerchimbe, ma sulla riva destra, mentre sull'altra sponda si sarebbero concentrate l'area sacra e la necropoli. In tal caso si potrebbe pensare a uno sdoppiamento e a una progressiva traslazione dell'abitato in età bizantina, con un nuovo agglomerato formatosi intorno alla cattedrale, sul sito della vecchia necropoli: nel caso di Bosa appunto a Messerchimbe, dove i dati archeologici testimoniano un centro altomedioevale, e dove sarebbe sorta in seguito la chiesa di San Pietro. Attraversata dalla strada costiera occidentale, che superava il Temo a Pont'Ezzu, Bosa era collegata direttamente a sud con Cornus (presso il comune di Cuglieri) e a nord con Carbia (Nostra Signora di Calvia, località situata alla periferia sud di Alghero). Del porto di Terridi restano ancora tracce di bitte per l'attracco delle barche. In età romana la città, che in un primo tempo pare aver mantenuto l'ordinamento punico, con la magistratura dei suffeti, divenne, forse dalla prima età imperiale, un municipio con un proprio ordine di decurioni e un collegio di quattuorviri. L'introduzione del culto imperiale è documentato da un'epigrafe in marmo che ricorda la dedica, fra il 138 e il 141, da parte di un magistrato o sacerdote locale, Quintus Rutilius, di quattro statuette in argento, raffiguranti Antonino Pio, Faustina, Marco Aurelio e Lucio Vero. All'età degli Antonini risale anche la promozione di un anonimo flamine municipale bosano al massimo sacerdozio provinciale della Sardegna.
Medioevo vandalo (456-534), bizantino (534-851) e giudicale (851-1232)
In età bizantina, come si è detto, l'abitato era posto – forse – sulla riva sinistra del Temo, presso il sito della chiesa di San Pietro. La città subì per tutto il Medioevo le scorrerie degli Arabi. Tuttavia non perse la sua importanza: fu capoluogo della Curatoria di Planargia, nel Giudicato di Logudoro e sede vescovile. In un periodo compreso tra il sesto decennio dell'XI secolo e il 1073 si provvide alla costruzione della chiesa cattedrale dedicata a San Pietro. Le date vengono fornite da due documenti epigrafici presenti nella chiesa: il primo è rappresentato da un'iscrizione incisa sul concio di una lesena absidale che, secondo una recente rilettura operata dallo studioso Giuseppe Piras, attesta l'atto di consacrazione e posa della prima pietra dell'edificio romanico celebrato dal vescovo Costantino de Castra (in passato il titulus veniva erroneamente riferito all'attività di un presunto architetto di nome Sisinius Etra); il secondo è costituito da un'epigrafe, collocata nella navata centrale, che ricorda l'anno di ultimazione dei lavori promossi dal vescovo, il 1073 appunto. La decisione di Costantino de Castra (primo vescovo di Bosa di cui si abbia notizia) di intitolare a San Pietro la cattedrale bosana può essere forse intesa come segno di schieramento dalla parte del pontefice romano dopo lo scisma ortodosso del 1054: infatti Costantino de Castra, come sappiamo da una lettera del 1073 del Papa Gregorio VII, fu impegnato personalmente nella propaganda cattolica presso i Giudici della Sardegna e nello stesso anno ricevette da papa Gregorio VII la nomina ad arcivescovo di Torres. Con l'edificazione del castello dei Malaspina sul colle di Serravalle tra il 1112 e il 1121 o, secondo i più recenti studi, nella seconda metà del XIII secolo, si pensa che la popolazione abbia cominciato gradualmente a trasferirsi nella riva destra del fiume, sulle pendici dell'altura fortificata che garantiva una maggior protezione contro le incursioni arabe, finché nella zona di Calameda non restò che la cattedrale di San Pietro.
Medioevo malaspiniano (1232-1317) e arborense-aragonese (1317-1409)
Nel 1297 il Papa Bonifacio VIII istituì il Regno di Sardegna e Corsica, che concesse al re Giacomo II di Aragona. I Malaspina, temendo l'invasione aragonese, potenziarono il castello con una torre maestra che ricorda quelle cagliaritane dell'Elefante e di San Pancrazio (1305 e 1307), costruite da Giovanni Capula, il quale aveva forse edificato anche quella bosana[31]. Tuttavia, il 2 novembre 1308, Moruello, Corrado e Franceschino Malaspina cedettero il castello di Bosa a Giacomo II. Negli anni successivi la famiglia lunense dovette nondimeno mantenere i propri diritti sul castello, se una cronaca sarda del Quattrocento sostiene che nel 1317 essa lo cedette al Giudicato di Arborea. Ad ogni modo, a seguito dell'alleanza tra l'Arborea e l'Aragona, Pietro Ortis prese possesso del castello di Bosa per conto dell'infante Alfonso d'Aragona, col consenso degli Arborensi. I Malaspina uscirono però definitivamente dalla storia bosana solo quando l'11 giugno 1326 Azzo e Giovanni delegarono il fratello Federico nelle trattative col re d'Aragona per la cessione di Bosa e della Curatoria di Planargia. Passarono solo due anni, e il 1º maggio 1328 Alfonso il Benigno, re d'Aragona, concesse in feudo il castello al giudice arborense Ugone II di Arborea: la città e il suo territorio entrarono allora a far parte delle terre extra iudicatum dell'Arborea. Il figlio di Ugone, Mariano IV, ruppe però l'alleanza con gli Aragonesi, e nel suo tentativo di unificare la Sardegna sotto di sé fece imprigionare, nel dicembre del 1349, il fratello Giovanni, Signore di Bosa dal 1335, e fedele alla vecchia alleanza. Il castello di Bosa era una roccaforte di grande importanza strategica per il controllo della Sardegna, e tanto Mariano quanto Pietro IV il Cerimonioso, desiderosi di impossessarsene, cercarono di farselo cedere dalla moglie di Giovanni, la catalana Sibilla di Moncada; ma ella tirò per le lunghe le trattative, finché il 20 giugno 1352 Mariano lo prese con la forza. Bosa fu quindi sotto il controllo dei giudici d'Arborea Ugone III (1376-1383), ed Eleonora (1383-1404), che ne fecero la loro roccaforte nella guerra contro gli Aragonesi; alle trattative di pace tra Eleonora e Giovanni I d'Aragona, il 24 gennaio 1388, la città inviò il proprio podestà con centouno rappresentanti che firmarono gli atti, separatamente dal castellano e dai funzionari e rappresentanti feudali. L'esistenza a quel tempo di un'organizzazione comunale, oltre che da questo fatto, è dimostrata dai quattro capitoli degli statuti di Bosa citati in un atto notarile seicentesco. La città era dunque divisa tra la parte di pertinenza del castello, e quindi soggetta al feudatario (che si suole oggi identificare, pur senza vere prove, col quartiere di Sa Costa, privo di chiese perché avrebbe fatto capo a quella del castello), e il libero comune (identificato oggi col quartiere di Sa Piatta), retto dagli statuti.
Periodo aragonese-feudale (1409-1559)
La guerra però riprese, e quando gli Aragonesi il 30 giugno 1409 sconfissero il nuovo Giudice Guglielmo III di Narbona a Sanluri, il Giudicato d'Arborea, ultimo dei regni sardi indipendenti, cessò di esistere, e l'anno successivo Bosa passò definitivamente sotto il controllo della Corona d'Aragona. Poco dopo la conquista aragonese, il 15 giugno 1413, Bosa e la Planargia furono unite al patrimonio regio, e la città, riconosciuti privilegi e consuetudini, fu organizzata come un comune catalano. L'organo cittadino era il consiglio generale, col potere di deliberare, dal quale erano scelti i cinque consiglieri, uno per ogni classe di censo, che formavano l'organo esecutivo; il primo consigliere rivestiva la funzione di sindaco, e rappresentava la città. D'altra parte il castello era tenuto da un capitano o castellano, di nomina regia, che curava la difesa; il re nominava anche il doganiere o maggiore del porto, il mostazzaffo (ufficiale incaricato di sorvegliare il commercio), e il podestà, che amministrava la giustizia e controllava per conto della corona l'operato dei consiglieri. Alle dipendenze del consiglio era poi l'ufficiale che governava la Planargia. In teoria tutte le cariche dovevano essere ricoperte da Sardi nativi o residenti a Bosa o nella Planargia; ma sebbene questo diritto fosse stato ribadito più volte, di fatto venne spesso calpestato. Tra la città e il castello la convivenza non fu pacifica, e al parlamento sardo del 1421 i sindaci Nicolò de Balbo e Giacomo de Milia ottennero dal re la destituzione del castellano Pietro di San Giovanni. Sotto il regno di Giovanni II d'Aragona a Bosa funzionò anche una zecca, che emetteva monete di mistura del valore di un minuto, destinate a una circolazione locale. Qualcuna di esse si conserva tuttora. Il 23 settembre 1468 il castellano di Bosa, Giovanni di Villamarí, capitano generale della flotta reale, ottenne in feudo perpetuo (secundum morem Italiae) la città, il castello e la Planargia di Bosa (con le ville di Suni, Sagama, Tresnuraghes, Sindia, Magomadas, Tinnura e Modolo), di cui divenne barone. Il Villamarí tuttavia prestò omaggio alla città e ne mantenne sostanzialmente le istituzioni. In questi tempi Bosa si trovò ad avere il singolare privilegio di partecipare a tutti i tre stamenti del parlamento sardo, attraverso il feudatario (braccio militare), il vescovo (braccio ecclesiastico) e i delegati dei cittadini (braccio reale). Nel 1478 il castello di Serravalle vide la fine delle ultime speranze di indipendenza dei sardi, quando il marchese di Oristano, Leonardo de Alagón, vinto a Macomer, trovò in città l'ultimo rifugio, prima di essere catturato da una nave spagnola, mentre fuggiva per mare verso Genova. Ereditata da Bernardo di Villamarí il 24 dicembre 1479 alla morte del padre, Bosa ottenne sempre maggiori privilegi commerciali, spesso ai danni della vicina e rivale Alghero, che ne fecero una città prospera. Il 30 settembre 1499 una prammatica di Ferdinando il Cattolico la inserì tra le città reali, concedendole i privilegii connessi a tale titolo; essa restò tuttavia infeudata ai Villamarí, di cui anzi il 18 luglio 1502 divenne possedimento allodiale. La fioritura continuò anche sotto la figlia di Bernardo, Isabella, che la resse tra il 1515-1518 e il 1559, facendole guadagnare terreno nei mercati dell'isola anche su Oristano. Ma proprio allora l'economia bosana doveva subire un duro colpo. Nel 1527, durante la guerra tra la Francia di Francesco I e l'Impero di Carlo V, mentre i lanzichenecchi saccheggiavano Roma, i francesi contesero alla corona di Spagna il possesso della Sardegna. Entrati a Sassari alla fine di dicembre, la saccheggiarono, incutendo terrore nelle altre città sarde. I bosani, per impedire un assalto della flotta francese comandata da Andrea Doria, reagirono l'anno successivo ostruendo con dei massi la foce del Temo, forse a S'Istagnone, determinando però in questo modo il rapido decadimento del porto, e l'inizio di un lungo periodo di straripamenti del Temo che resero l'ambiente malsano. Da allora le imbarcazioni presero ad attraccare all'Isola Rossa. Durante il regno di Filippo II di Spagna (1556-1598), nel 1559, Isabella Villamarí morì senza discendenti lasciando un'eredità gravata da ingenti debiti. La contessa di Padula, Maria de Cardona (1509-1563), le successe nella titolarità del feudo bosano. Morendo quest'ultima senza discendenza nel 1563, ne dispose a favore del duca di Alcalá, Pedro Afán de Ribera (1509-1571), che — a causa delle gravi passività gravanti sull'eredità — vi rinunciò il 25 maggio 1563. In esecuzione di un decreto che stabiliva l'unione alla corona dei feudi vacanti, il Supremo Consiglio d'Italia e quello d'Aragona furono chiamati a stabilire un prezzo di acquisto per la città di Bosa e per la Planargia. Il re Filippo II si obbligò a pagare i creditori ereditari e, contestualmente, acquistò Bosa e la Planargia al patrimonio della corona. Da allora Bosa divenne a tutti gli effetti una città regia, cessando di essere sotto un'autorità feudale. Nel 1568, il re ordinò che venisse soppresso l'ufficio di governatore della città di Bosa, surrogandovi un podestà, e, nel contempo, che fosse nominato un ufficiale regio per la Planargia. Su richiesta dello Stamento militare, vennero tradotti in lingua catalana gli statuti di Bosa, originariamente in lingua sarda e, in altre versioni, in italiano. Filippo II, nel 1572, diede anche il via a un progetto di fortificazione delle coste sarde. In questo contesto si inseriscono le prime testimonianze della presenza — innanzi alla foce del Temo — della torre dell'Isola Rossa, allora denominata torre del porto. La seconda metà del Cinquecento rappresentò per Bosa un'era di grandi cambiamenti anche sul piano culturale. Già dal 1569 operava, come canonico della cattedrale, Gerolamo Araolla, il maggiore poeta in lingua sarda dell'età spagnola, che a Bosa compose le sue opere (Sa vida, su martiriu et morte de sos gloriosos martires Gavinu, Brothu et Gianuariu, e Rimas diversas spirituales). Nel 1591 fu consacrato vescovo Giovanni Francesco Fara, il padre della storiografia sarda. Egli diresse la chiesa bosana soltanto per sei mesi ma subito convocò il sinodo diocesano (10-12 giugno 1591), e con le sue costituzioni riorganizzò la diocesi secondo i canoni tridentini. Con tutta probabilità si deve a lui la costituzione dell'archivio diocesano e l'avvio della redazione dei cinque libri, il cui documento più antico conservato oggi è del 1594. All'interessamento del Fara dovette probabilmente la libertà e la possibilità di uscire di prigione il poeta bosano Pietro Delitala, uno tra i primi autori sardi a usare nella sua opera la lingua italiana. Dal carcere indirizzò alcuni sonetti di supplica al vescovo, e da altre liriche si evince che nel 1590 era tornato in libertà. Trascorse i suoi ultimi anni a Bosa, dove prese moglie ed ebbe cinque figli, fu podestà della città e cavaliere nello Stamento militare del Parlamento del Regno di Sardegna.
Evo moderno spagnolo (1559-1714)
Durante il regno di Filippo III di Spagna (1598-1621), arrivarono a Bosa i Cappuccini, che in città edificarono il loro convento (1609), e furono fondate le confraternite della Santa Croce e del Rosario, nonché dei gremi dei sarti e calzolai e dei fabbri. Il nuovo secolo fu però un periodo di grande decadenza, come per tutti i domìni spagnoli, anche per Bosa. Apertosi con la grave inondazione del 1606, funestato dalla peste (1652-1656), da un violento incendio (1663), dalla grande carestia del 1680, dalle continue incursioni ottomane e dalla forte recessione economica, vide precipitare la popolazione dai circa 9 000 abitanti del 1609 ai 4 372 del 1627, ridotti ancora a 2 023 nel 1688. Non dovette giovare molto la concessione dello statuto di porto franco nel 1626. Durante il regno di Filippo IV di Spagna (1621-1665), gli urgenti bisogni finanziari derivanti dalla Guerra d'Italia spinsero la corona a vendere all'incanto i territori e le ville della Planargia insieme al castello di Serravalle e ad eccezione della libera città di Bosa. La regione fu venduta, quale franco e libero allodio, ad Antonio Brondo y Ruecas, marchese di Villacidro. Bosa fu così obbligata a fare a meno dei contributi in grano che gli erano garantiti dall'entroterra planargese. Vue de la Ville de Boze a L'ouest de l'Isle de Sardaigne entre le Cap de la casse et le gonfe de L'Oristan, tempera di anonimo del XVII secolo. Durante il regno di Carlo II di Spagna (1665-1700), il feudo della Planargia era poverissimo e spopolato, nonché caduto nel disinteresse dei suoi signori, al punto che la città di Bosa ne aveva ripreso di fatto il controllo. Fu così che, nel 1670 la Planargia fu messa all'incanto dalla famiglia Brondo che, nel frattempo si era gravemente indebitata. Il feudo trovò un acquirente soltanto nel 1698 in Giuseppe Olives. Nel 1700 morì Carlo II e gli successe, per disposizione testamentaria, Filippo V di Spagna (1700-1724). L'arciduca d'Austria, Carlo VI d'Asburgo, avanzò pretese sul trono, scatenando la cosiddetta Guerra di successione spagnola. Fu così che, nell'agosto del 1708, le truppe anglo-olandesi — alleate dell'arciduca — effettuarono una spedizione in Sardegna e, con la resa di Cagliari, Alghero e Castelsardo, posero fine al dominio iberico sull'isola. La Sardegna aveva cessato definitivamente di essere un regno in unione personale con la corona di Spagna.
Periodo austriaco (1714-1718) e sardo-piemontese (1718-1861)
Passata con l'intera Sardegna agli Asburgo d'Austria nel 1714, quindi ai Savoia tra il 1718 e il 1720, la città riacquistò via via una certa importanza: già nel 1721 le barche coralline napoletane furono autorizzate a far quarantena anche nel porto di Bosa, e di conseguenza fu inaugurato un lazzaretto a Santa Giusta. La popolazione era andata in quegli anni progressivamente aumentando, tanto che dai 3 335 abitanti del 1698, si era giunti nel 1728 a 3 885, e nel 1751 a 4 609. Nel 1750 Carlo Emanuele III autorizzò un gruppo di coloni provenienti dalla Morea a insediarsi su una parte del territorio di Bosa: fu così fondato il paese di San Cristoforo, in seguito chiamato Montresta. Gli immigrati, però, furono insediati in territori fino ad allora usati dai pastori bosani: non ebbero perciò vita facile, e furono oggetto dell'aperta ostilità della città, spesso sfociata in fatti di sangue, cosicché un secolo dopo, secondo l'Angius, delle famiglie greche restavano due soli membri. Interessante per questo periodo è la relazione nel 1770 della visita che il Viceré Vittorio Ludovico des Hayes, conte d'Hallot, compì anche a Bosa: venne segnalato lo stato d'abbandono degli uffici e in particolare degli archivi. Il 4 maggio 1807 Bosa divenne capoluogo di provincia per un decreto del re Vittorio Emanuele I e nel 1848, in seguito all'abolizione delle province, fu incluso nella divisione amministrativa di Nuoro. Nel 1859 le province furono ripristinate e Bosa entrò a far parte della Provincia di Sassari fino a quando nel 1927, istituita la Provincia di Nuoro, venne accorpata a questa.
Dall'unità d'Italia ad oggi (1861-XXI secolo)
La città conobbe nell'Ottocento un incremento demografico progressivo ma lento: la popolazione passò via via dai 5 600 abitanti del 1821 ai 6 260 del 1844, ai 6 403 del 1861, ai 6 696 del 1881, ai 6 846 del 1901. Si sviluppò tuttavia l'attività della concia delle pelli (sulla sinistra del Temo, negli edifici noti come sas Conzas), mentre le vecchie mura vennero abbattute e già alla metà del XIX secolo la città si ampliò verso il mare, secondo le indicazioni del piano d'ornato di Pietro Cadolini (1867). Il rinnovamento delle vecchie infrastrutture, come il ponte sul Temo (1871), e le nuove costruzioni, quali l'acquedotto (1877) e la rete fognaria, che posero rimedio all'ambiente insalubre della città, o la strada ferrata a scartamento ridotto per Macomer, segnarono un risveglio che soltanto dopo la grande guerra conobbe un sensibile rallentamento. Nel 1869, dopo decenni di richieste, si cercò di ridar vita anche al porto, ormai scomparso da più di trecento anni, congiungendo l'Isola Rossa alla terraferma, senza però che si ottenessero risultati apprezzabili. Le opere pubbliche di questi anni diedero al centro un aspetto dignitoso ancora oggi pienamente fruibile; tuttavia per il comune di allora, accanto al miglioramento delle condizioni di vita, significarono anche un forte indebitamento, che con gli anni, sommandosi alla pressione fiscale voluta dal ministero, diede origine a una rivolta popolare (14 aprile 1889). La popolazione conobbe un'evoluzione relativamente modesta anche nel corso del Novecento (8 632 abitanti nel 1971, ma 7 935 nel 2001) ed è proprio grazie a questa sua scarsa vitalità che Bosa ha potuto mantenere una fisionomia storica sconosciuta in molti altri centri della Sardegna. Negli ultimi decenni l'espansione urbana ha portato al congiungimento del centro alla marina, con interventi edilizi come due nuovi ponti, il primo all'altezza di Terrìdi (anni ottanta) e il secondo (esclusivamente pedonale) presso il centro storico (anno 2000), che hanno almeno in parte alterato il sapore tradizionale del suo ambiente. Oggi per di più, anche in seguito all'apertura della litoranea per Alghero, la città è avviata verso un rilancio turistico, che se rappresenta un'opportunità economica per gli abitanti, rischia di compromettere definitivamente il suo carattere. Nel maggio 2005, in attuazione della Legge Regionale di riforma delle circoscrizioni provinciali della Sardegna, il comune di Bosa è passato dalla Provincia di Nuoro alla Provincia di Oristano.
Monumenti e luoghi d'interesse
Numerosi sono gli edifici religiosi eretti sul territorio comunale, molti dei quali continuano ad arricchire il tessuto urbano cittadino, fornendo testimonianza del variare del gusto architettonico e del modo di intendere la fede nel corso dei secoli, dagli ambienti spogli di una delle prime costruzioni romaniche della Sardegna, la chiesa di San Pietro, per arrivare agli interni barocchi della concattedrale dell'Immacolata Concezione, passando per i messaggi biblici espressi dagli affreschi della chiesa palatina di Nostra Signora de Sos Regnos Altos, rarissimo esempio di pittura parietale trecentesca nella regione. Tra gli edifici religiosi scomparsi, invece, si annoverano le chiese di Santa Maria Maddalena (distrutta nel 1870 per far spazio all'attuale piazza Costituzione) Santa Maria de Sole, Sant'Antonio di Padova, San Bartolomeo, Santa Barbara, Santa Margarita. Chiese medievali e cistercensi Forse già prima dell'XI secolo fu innalzata la chiesetta campestre di San Giorgio martire guerriero, sulla riva sinistra del Temo, più volte rimaneggiata nei secoli successivi, da ultimo mediante un portale barocco In epoca medioevale venne costruita, presso la fonte di Contra, in un sito già edificato in epoca romana, la chiesa di San Bacchisio (intitolata ai medici e martiri Cosma e Damiano dopo le pestilenze del XV e del XVI secolo[45]). Nel medesimo periodo fu eretta la chiesetta di Sant'Eligio la quale poggia le fondamenta sui ruderi di un nuraghe, come molte chiese paleocristiane e del primo Medioevo. Ulteriori chiesette campestri di antica e incerta datazione sono dedicate, rispettivamente, a santa Maria di Turuddas, santa Maria di Prammas e san Martino vescovo. Chiese gotico-catalane Inizia a radicarsi un nuovo modello costruttivo che, nel Quattrocento, sfocerà nel tipico schema iconografico gotico-catalano, che si diffonderà in Sardegna nelle sue declinazioni più semplici con inserti e superfetazioni rinascimentali e manieristiche Chiese manieristico-classicheggianti Intorno al XVII secolo si assiste all'incontro della tradizione gotico-catalana con le nuove forme del manierismo severo, approssimativamente rinascimentali e classicheggianti. Nel 1609 è fondato il convento dei padri cappuccini con l'annessa chiesa dedicata alla Madonna degli Angeli. Del 1686 è, invece, la chiesa di Santa Maria del Mare, a Bosa Marina, costruita in seguito al ritrovamento di una statua della Vergine sulle rive del mare. Nel corso del Seicento fu costruita, nei pressi della porta orientale della città, la chiesetta intitolata alle martiri cagliaritane Giusta, Giustina ed Enedina. Ispirata ai medesimi modelli è la forma attuale della chiesetta dei Santi Cosma e Damiano, ricostruita nel XXI secolo, e della chiesa di Santa Filomena. Chiese barocche Alla fine del Seicento emergono sobrie soluzioni prebarocche e tardo manieristiche. Risale a questo periodo il rimaneggiamento della chiesa di Santa Croce, la cui esistenza era già attestata nel 1580. Essa fu affidata ai Fratelli di San Giovanni di Dio, che nel 1644 gestivano il contiguo ospedale della Misericordia. Chiese del XXI secolo Nei primi anni '30 del Novecento si consacrò, nel borgo di Sa Costa, la chiesa conosciuta con l'appellativo di Santa Teresina, intitolata a santa Caterina. Nella seconda metà del XXI secolo, da ultimo, fu eretta la chiesa parrocchiale del Sacro Cuore di Gesù.
Architetture civili
Le vecchie concerie (Sas Conzas) Il complesso delle vecchie concerie fu eretto tra il Seicento e il Settecento lungo la riva sinistra del Temo, in prossimità del Ponte Vecchio, e raggiunse la sua massima operatività nel XIX secolo diventando il maggior centro conciario della Sardegna con ventotto strutture in attività[59]. Completamente dismesse nel 1962, le vecchie concerie sono state classificate come monumento nazionale[60], in quanto rara testimonianza di architettura industriale all'interno di un contesto urbano che concorre a caratterizzare. Le strutture, pertanto, sono state sottoposte a misure di tutela che ne hanno consentito il recupero e la valorizzazione dopo il degrado seguito al loro abbandono. Si tratta di un insieme di stabilimenti conciari che occupano una superficie coperta di 4 000 m², estendendosi – con uno schema modulare ripetitivo a timpani affiancati. All'interno delle singole strutture, l'area era divisa in un piano terra con vasca in muratura, ove avveniva la lavorazione delle pelli, e in un piano superiore, nel quale si procedeva alla rifinitura. Ponte Vecchio Il Ponte Nazionale, meglio conosciuto come Ponte Vecchio (Pont'ezzu in sardo) venne edificato, in trachite rossa e a tre arcate, su disegno dell'ingegnere del genio civile Carlo Pizzagalli, nel 1871. Ha sostituito quello precedente – in legno e a sette archi – crollato all'inizio del XIX secolo.
Architetture militari
La Sardegna ha rappresentato per i suoi dominatori, un territorio di frontiera spesso vulnerabile per la sua vicinanza alle sponde del nord Africa e perché continuo bersaglio di attacchi barbareschi. La sua costa occidentale, in particolare, si è trovata a lungo in un clima di generalizzata insicurezza incrementata dalla sua lontananza dalle più sicure e trafficate coste italiane e per la presenza di centri abitati di maggior rilievo rispetto alla meno popolata costa orientale. In questo contesto, è probabile che già l'antico abitato romano sia stato interessato da opere rudimentali di fortificazione. In particolare, alcuni studiosi hanno affermato che l'antico villaggio sia stato cinto da mura, sebbene in forma rudimentale, e che l'attuale torre campanaria della chiesa di San Pietro sia stata eretta sopra una preesistente struttura difensiva romana, forse collegata visivamente a una torre di avvistamento posta sul colle di Serravalle, punto strategico di osservazione sull'intera vallata del Temo e sul mare antistante. Quel che è certo è che proprio su quel colle, intorno al XIII secolo – con l'intensificarsi della belligeranza tra i feudatari liguri e toscani, da una parte, e gli indeboliti giudicati locali, dall'altra – i marchesi Malaspina edificarono il primo nucleo di quella piazzaforte che ancora oggi costituisce la più caratterizzante architettura militare del territorio.
Tradizioni e folclore
Il carnevale. Tipiche del carnevale di Bosa (carrasegare 'osincu) sono le mascherate di s'Attitidu e di Gioltzi, le quali si inseriscono nel novero delle tradizionali manifestazioni carnevalesche della Sardegna, differenziandosene per taluni caratteri peculiari (l'accentuazione dell'elemento goliardico-sessuale) ma condividendone la ritualità apotropaica legata ai cicli naturali della vita e della morte, della rinascita della natura nonché al culto di divinità agricolo-pastorali e pluviali precristiane (Maimone)[71] o di Dioniso Mainoles. Le festività hanno inizio il giorno di Giogia lardagiolu, a una settimana dal giovedì grasso, con cortei di maschere dal volto coperto di fuliggine e con berretto e giacca indossata al contrario, muniti di spiedi e bisacce – da riempire con le offerte ricevute – e di improvvisati strumenti musicali, come la serragia, mestoli e coperchi di pentole (cobertores), e – anticamente – le staffe del cavallo (attaidu). Le maschere si aggirano per le strade dileggiando coloro che durante l'anno si sono resi protagonisti di eventi scandalosi e canzonando – con improvvisati stornelli satirici a trallallera – il malcapitato di turno, al quale è chiesto di partecipare alla questua con un contributo in derrate alimentari per la cena (parte 'e cantare). La sera, secondo la tradizione, si preparano banchetti a base di fave e lardo (fae a landinu), vino novello e zeppole (frisciolas). Nel tradizionale calendario del carnevale, si è inserito, tra Giogia lardagiolu e il Martedì grasso, il sabato delle cantine. In questa occasione ognuno può scegliere liberamente la propria maschera, ripercorrendo le vie del centro storico per degustare cibi tipici e vini locali presso le cantine private aperte per l'occasione. La mattina del Martedì grasso sfilano le attitadoras con il viso ricoperto dalla fuliggine del sughero bruciato e vestite di nero, in segno di lutto: indossano una gonna lunga (gunnedda), uno scialle (moccaloru) e, eventualmente, un bustino (isciacca). Le maschere-prefiche recitano ritmiche lamentazioni funebri, esibendosi in dimostrazioni di dolore ritualizzate (dondolio del capo o del busto, percussione del petto, sfregamento convulso delle cosce e battito delle mani, l'una sull'altra o contro il capo). Mostrano figure sessuali (rappresentazioni di falli o di seni) e un bambolotto smembrato, spesso imbrattato di nero o di rosso, di cui lamentano il malessere – o la morte – con caratteristiche cantilene (attitidos) intervallate da sillabe emotive periodiche («ohi!» o «ahi!») e per il ristoro del quale chiedono un sorso di latte (unu tichirigheddu 'e latte) alle donne che incontrino nel loro cammino. La richiesta è spesso accompagnata da gesti osceni e versi satirici. All'imbrunire del Martedì grasso, le maschere si vestono con lenzuoli e copricapi bianchi, trasportando torce o candele – eventualmente all'interno di un cesto di vimini (pischedda) – per cercare Gioltzi, il cui nome è spesso ripetuto come una cantilena. A tal fine, vagano per le strade fino a tarda notte, inseguendosi e catturandosi l'un l'altra, per svelare le rispettive identità. Alle maschere fermate è sollevata la veste, mentre un lume viene indirizzato verso i loro genitali. Così facendo, il catturante può urlare «Ciappadu, ciappadu!», annunciando di aver trovato Gioltzi, il capro espiatorio. In seguito, un pupazzo che lo raffigura è condannato e sacrificato con un rogo catartico nell'euforia collettiva, ponendosi fine al carrasegare. Gli aspetti di drammatizzazione che caratterizzano il carnevale bosano hanno attirato l'attenzione di antropologi e studiosi del teatro.